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FIACCOLE E DELUSIONI
(di Mario Lucioli « Lenin»)

Nelle nostre azioni, quello che sconcertava le camicie nere era la parvenza della nostra superiorità numerica. Oltre a ciò erano la nostra fama di temerari e la sorpresa, nostra abituale alleata, ad incutere loro spavento. E c'erano altre cause. La fede, di cui i nemici menavano gran vanto, in loro non era sostenuta da ideali validi, mentre gli ideali nostri erano giusti ed esaltanti e perciò ci in­fondevano l'ardire. Per di più le nostre aspirazioni poggiavano sulla fratellanza e per conseguenza sul perdono; i loro propositi, al contrario, consistevano nel mantenimento del privilegio egoista e per conseguenza nella repressione violenta.
Io in formazione ero « Lenin ». Non per mia superbia o presunzione. Ero Lenin perché nel registro di stato civile del Comune nella casella che mi riguar­dava c'è scritto Lenin. Lucioli Lenin. Fu la venerazione di mio padre per il grande rivoluzionario ad assegnarmi quel nome. Furono l'odio e l'avversione fa­scista contro Lenin e contro il socialismo a costringere, nel 1938, la mia famiglia ad aprire un processo per depennare dagli atti quel nome ammonitore e sosti­tuirlo con quello di Mario che è un nome... innocuo.
Ora vengo a parlare di un intervento ideato e compiuto da due soli parti-giani:   Primo Bossini ed io, il 26 giugno  1944.
Armati soltanto di una pistola a tamburo di piccolo calibro con tre — dico tre — pallottole a disposizione, decidemmo di disarmare un repubblichino non lungo una strada come di solito ma nella sua abitazione, al primo piano di villa Pratesi che è situata dirimpetto alla chiesa della Madonna e che al pianterreno era occupata dai militari tedeschi. Fu appunto la presenza dei tedeschi in casa che ci indusse a scegliere quel repubblichino invece di altri. Volevamo che rico­noscessero che il loro « menefreghismo » era fasullo e che reale era invece il peri­colo che li sovrastava in forma tanto più imminente quanto più i tedeschi erano loro vicini. Volevamo piegare i fascisti del paese con la sola nostra forza morale, quella che ci proveniva dal partecipare alla Resistenza.
Andò in casa Primo mentre io restai di guardia all'esterno. Ebbi anche un bel batticuore quando sentii un colpo forte e sonoro provenire dalla villa. Mi avvi­cinai e dalla finestra vidi che dentro la cucina i tedeschi lavavano le pentole tranquilli. Forse il colpo era stato provocato da un pezzo caduto sul pavimento. Quando Primo tornò fischiettando aveva sotto la giacca la pistola del repubbli­chino. L'aveva anche convinto alla consegna della motocicletta e delle armi che teneva nascoste, soltanto che detta consegna non poteva essere effettuata in quel momento per la presenza dei tedeschi. Perciò aveva combinato che il trasloco sarebbe stato effettuato nelle ore opportune e che la consegna sarebbe avvenuta all'alba dell'indomani nei pressi della località Albergo.
Pel ritiro disse che bastava lui, nonostante ogni mia insistenza di lasciarsi accompagnare. Io l'avrei aspettato ai Poggiali.
Prima che si facesse giorno, presi la via dell'appuntamento ed ai Poggiali mi misi ad aspettare. Ero arrivato con un po' d'anticipo ma passarono delle ore senza che Primo si facesse vivo, per cui il sospetto che fosse caduto vittima d'un tranello era diventato forte. Allora pensai di partire per la sede della Banda per comunicare le mie apprensioni. Proprio allora incominciai a sentire un rombo tra le vie delle colline e poco dopo vidi spuntare da una curva Primo, che an­dava a sbalzi perché era la prima volta che guidava la moto. Da lì a Cornia avrei voluto guidare io, ma non ci fu niente da fare, volle condurla da se.
Scommetterei che fu quel giorno, ma non ci giurerei. Si presentarono due inglesi di quelli che vivevano nascosti, a parlare con noi. Domandarono a Ren-zino quanto potevano essere lontani gli inglesi. Additammo la zona del fronte ed anch'essi osservarono col binocolo. Il fronte era al Trasimeno. Allora pro­posero di oltrepassare le linee. C'era una giornata di marcia e si poteva stimare che l'operazione comportasse meno pericoli di quelli che ci sovrastavano ogni giorno  alla macchia.
— Non è possibile, amici. Non è possibile perché, allora non saremmo più partigiani. I tedeschi devono andare. Noi in casa nostra. Capito?

— Oh, yes. Sì, avere capito.
Dopo un poco domandarono se avevamo un fucile per ciascuno di loro. Renzino non glieli dette, ma neanche glieli negò. Gli avrebbe prestato tutto il necessario purché fossero andati con lui a prendere altre armi.
—  Dove essere? chiesero.
Renzino propose di andare dove passavano i tedeschi.
—  No... Non possibile... Io malato stomaco!.,.
Intanto nell'aria si stava diffondendo un tipico ronzio più intenso da un mo­mento all'altro fino a trasformarsi in frastuono ed allora Renzino additò la for­mazione, piccola in verità, dicendo agli inglesi:
—  Se quei signori lassù sapessero quello che devono fare, di armi potrei
darvene a volontà.
E poi incominciò a gridare di accendere i fuochi.
Gli aerei incominciarono a disegnare ampi cerchi su in alto ed intanto sotto di loro volteggiavano a centinaia i volantini insulsi che sapevamo a memoria: « Partigiani, passate all'attacco!  Non date tregua ai vostri oppressori! ».
— Con che attacchiamo, bastardi? Con la vostra carta da gabinetto? Le fiaccole che seguitarono a dimenarsi in un richiamo inascoltato avrebbero potuto contare gli improperi.