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Una testimonianza di Piero Pieri
Partigiano della II compagnia della formazione “Licio Nencetti”

Ero ricoverato in un'aula della scuola elementare di Castelfocognano, ove saltuariamente il dr. Alessandro Giorgi di Rassina veniva a medicare le mie ferite. La popolazione ed il parroco del paese mi prestavano i loro aiuti ed ogni tanto ricevevo la visita dei miei compagni partigiani.
Il mattino del 4 luglio fui svegliato dal rumore di spari d'arma da fuoco, che si avvicinavano sempre più. Capii che si trattava di un rastrellamento tedesco. Qualcuno entrò di corsa nella mia camera, forse il ma­resciallo Mattesini, partigiano della compagnia « I », e dalla finestra gettò nelle ortiche del sottostante campo la mia pistola e gli oggetti che avevo con me e che potevano denunciare la mia condizione di partigiano.
Poco dopo entrarono i tedeschi, che mi fecero alzare dal letto, e così, nudo com'ero, — ero ricoperto di sole bende, — fui portato nella piazza del paese, ove venni percosso ed insultato, specialmente dai mili­tari italiani al seguito dei tedeschi, e costretto a rimanere inginocchiato per più di mezz'ora.
Poi un tedesco mi trascinò brutalmente di fronte ad un muro, ove faceva bella mostra un manifesto dei partigiani, e mi chiese chi l'aveva affisso. Risposi che non lo sapevo. Allora fui trascinato in casa del prete, il quale mi ricoprì con una sua tonaca.
Io non sapevo ancora nulla di quanto fosse accaduto a Terrossola e della cattura dei 5 partigiani. Ad un certo punto vidi spingere dentro la stanza in cui mi trovavo 4 giovani, con le mani legate: tra questi riconobbi il Lenzi. Erano tutti mal ridotti ed avevano le mani gonfie per le corde troppo strette. Io ed il Lenzi facemmo finta di non cono­scerci; ad un certo punto mi chiese cosa era successo ed io risposi che ero stato ferito dai tedeschi, mentre mietevo il grano nel campo di mio zio.
Poi ci fecero uscire dalla canonica e ci schierarono, con le mani al­zate, di fronte ad un muro, accanto ad altri civili che erano stati arre­stati. Ci tennero molto tempo in quella posizione, mentre i fascisti, al seguito dei tedeschi, si divertivano a colpirci ed a insultarci. Quando uno di noi abbassava le braccia, tiravano indietro il carrello del mitra e minacciavano di sparare.
Io, per tutto il sangue che avevo perduto, non ce la facevo a restare in quella posizione. Le ferite mi sanguinavano ancora. Ma resistevo di­speratamente, facendo appello a tutta la mia volontà.
Poi ebbero inizio gli interrogatori. A me chiesero informazioni sui partigiani: risposi che non sapevo nulla, ma che avevo sentito dire che gli alleati avevano loro aviolanciato armi e rifornimenti.
A questo punto, rendendosi conto delle mie condizioni, mi riman­darono nella mia camera. Non so dire quanto tempo ero rimasto sul letto, quando vennero a prelevarmi due tedeschi, che mi fecero incamminare dietro i 4 partigiani prigionieri. Giunti alla fontana, in fondo alla piazza, i due tedeschi mi dissero di guardare e di ricordare lo spettacolo al quale stavo per assistere. Esausto, mi sedetti sull'orlo della vasca e vidi i tedeschi cominciare a impiccare, uno alla volta, i miei compagni partigiani. Persi i sensi e quando mi riebbi mi trovai nella mia stanza.[...]

Raffaello Sacconi, Partigiani in casentino e Val di Chiana, La Nuova Italia, Firenze 1975